L'OTTOCENTO

Vasìlij Andréevič Žukovsij
Il saggio Sulle traduzioni in generale e in particolare sulle traduzioni poetiche, pubblicato nel 1810, introduce il concetto dell’importanza delle traduzioni per l’arricchimento di una lingua e di una cultura nazionale.
La differenza di governi e culture produce una differenza anche nelle lingue: le traduzioni ci fanno, allora, conoscere gli altri popoli e nel contempo ci fanno conoscere anche i segni mediante i quali essi si esprimono.
Appunto per questo, il patrimonio espressivo di un traduttore è assai più vasto di quello di uno scrittore che non ha mai fatto viaggi all’estero: per la lingua, le traduzioni sono come i viaggi per la formazione della cultura; un traduttore procura per la propria lingua i tesori di una lingua straniera.
Parlando, invece, di poesia sostiene che la dominante di un testo poetico sia la metrica, e quindi la forma. La poesia tradotta in prosa può definirsi incompleta: è sempre infedele e lontana dall’originale. La prosa non può rappresentare l’armonia contenuta nella poesia.
L’autore mette, pertanto, in guardia dal concetto di “equivalenza parola per parola”, invitando a riflettere sul registro della traduzione.
Se traduciamo un vocabolo con uno di registro molto diverso è un grave atto di manipolazione, sebbene possa capitare che i due vocaboli siano riportati sul dizionario come sinonimi. Così come un eccesso di fedeltà può trasformarsi nell’ infedeltà più assoluta.
Per Žukovsij in poesia è importante tenerlo presente perché prima di tutto bisogna salvaguardare l’armonia. Ogni opera e ogni autore hanno un proprio stile e il traduttore deve fare il possibile per riprodurlo: bisogna riproporre al lettore ricevente tutti i colori, i toni e le diverse sfumature.
La poesia è come uno strumento musicale, deve essere gradevole. Non bisogna considerare, così, la parola come elemento singolo, ma il testo va tradotto nel suo insieme. E quando ci rendiamo conto di non poter salvare o riprodurre una data caratteristica, la conserviamo per riprodurla altrove nel testo come in una sorta di compensazione. L’importante è che, pur sacrificando qualche immagine, riusciamo a portare avanti l’effetto prodotto dall’originale.
In un convegno alla Reale Accademia delle scienze di Berlino nel 1813, Schleiermacher pronuncia il discorso Metodi del tradurre, gettando le basi per la creazione di una nuova scienza della traduzione. Egli abbandona così tutti i luoghi comuni sulla traduzione: fedeltà, vicinanza all’originale, libertà, scorrevolezza, leggibilità.
La lingua non è soltanto un mezzo per esprimere ciò che abbiamo dentro, ma è anche ciò che forgia il nostro contenuto mentale. La forma dei concetti, il modo e il mezzo di metterli insieme sono delineati dalla lingua in cui è nato ed è stato istruito un certo individuo.
Schleiermacher parla appunto dell’opportunità di mettere a contatto autore e lettore: si devono mettere insieme due persone totalmente separate l’una dall’altra per via della lingua.
I due metodi traduttivi che Schleiermacher individua sono la parafrasi e l’imitazione.
La parafrasi tratta gli elementi linguistici come se fossero elementi matematici; rende, infatti, il contenuto con limitata precisione ma fa perdere nel lettore l’impressione dell’originale, uccidendo così il discorso vivo. Quest’ultima può fungere al massimo da commentario, mai da traduzione.
L’imitazione ha, invece, un obiettivo più ambizioso: suscitare nel lettore del metatesto le stesse emozioni suscitate nel lettore del testo originale.
In realtà è, però, una falsificazione perché pretende di spacciare per proprio ciò che è altrui.
Entrambe le alternative sono perciò insoddisfacenti e restiamo comunque con la necessità di individuarne una terza: avvicinare il lettore verso lo scrittore, o viceversa. Ciò che cambia è la trasparenza dell’atto traduttivo.
Nel primo caso la trasparenza è totale: il lettore viene condotto verso l’autore, lontano nel tempo. Nel secondo caso è nulla perché si pretende che l’autore si reincarni in un’altra epoca. Ma questa seconda possibilità è scartata per due ragioni: il primo è che si tratta di una falsificazione, di una pretesa che la realtà sia diversa da come è; il secondo è che i tratta di un’ipotesi perché nessuno può stabilire come un autore avrebbe scritto se fosse nato in un cronotòpo diverso.
Schleiermacher è favorevole a una traduzione che conservi il gusto dell’estraneo. Compito della traduzione è quello di comunicare ai lettori di un’altra lingua particolari costruzioni di parole, ricreando la stessa impressione dell’originale. Il traduttore che segue il processo dell’imitazione ha sempre la preoccupazione di cancellare dal testo ciò che è estraneo alla propria cultura per non far pensare al lettore che sia un testo tradotto. Ma il lettore al contrario deve sempre tener presente che l’autore del prototesto è vissuto in un’altra società e ha scritto in un’altra lingua.
Nel 1816, la rivista milanese Biblioteca italiana pubblica un discorso di Madame de Staël intitolato “Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni”.
Questo intervento è divenuto fondamentale per sottolineare l’utilità della traduzione come strumento per l’arricchimento reciproco delle culture.
Per la Staël, conoscere le lingue è “una buona cosa” ma anche per chi le conosce è piacevole leggere una buona traduzione per vedere come forme e contenuti “stranieri” prendono una nuova forma nella lingua di arrivo.
Toccando la questione della ricezione delle opera tradotte, introduce, inoltre, il fatto che esistono traduzioni ormai divenute patrimonio nazionale e dalle quali gli altri traduttori vengono influenzati.
Ad esempio, nessuno in Italia vorrà tradurre l’Iliade perché ormai tutti fanno capo alla traduzione di Monti. E in Italia non si può ignorare il suo lavoro perché la conoscenza dell’Iliade da parte degli italiani è pesantemente influenzata dalla sua opera.
Giovanni Berchet
In risposta al saggio della de Staël, dopo un anno esce la Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliolo di Giovanni Berchet.
L’intervento non concorda con il precedente riguardo l’obbligo di tradurre versi con versi: si deve variare a seconda della tipologia di testo che ci troviamo di fronte e della sua provenienza.
Il prototesto va sottoposto a un’analisi traduttologia per stabilire quale sia la dominante e le sottodominanti.
Non è detto, infatti, che quando si parla di poesia, la dominante sia necessariamente la metrica.
Wilhelm von Humboldt
Nel 1816 viene pubblicata la sua traduzione dell’Agamennone di Eschilo. Importante è l’introduzione dell’opera che parla dei criteri traduttivi che von Humboldt ha adottato e del suo concetto di fedeltà.
Secondo lo studioso, più una traduzione propende alla fedeltà, più devia dall’originale perché può creare sfumature nuove e diverse.
La fedeltà per von Humboldt è l’attenzione per il prototesto e la consapevolezza di non poter trovare espressioni “equivalenti” tra due lingue e culture diverse.
Qualsiasi tipo di traduzione deve nascere da un amore per l’originale. Ma se il traduttore fa di tutto per evitare l’estraneo, si distrugge qualsiasi vantaggio che la traduzione può portare a una lingua e a una nazione straniera.
Bisogna, infatti, prendere in considerazione che nessuno scrittore avrebbe scritto la stessa cosa e nello stesso modo in un’altra lingua.
Nella parte conclusiva della sua introduzione all’Agamennone, von Humboldt parla degli abbellimenti inseriti nelle varie traduzioni per raggiungere un ideale canonico di bellezza e di stile. L’incapacità di raggiungere la bellezza dell’originale induce facilmente ad abbellirlo con elementi estranei.
Laddove l’originale non esprime un concetto con chiarezza, esprime metafore di cui non si coglie il senso con precisione, il traduttore commette un errore a spiegare quelle cose che l’autore ha volutamente omesso.
Von Humboldt sottolinea l’importanza di riprodurre l’allusione e l’ambiguità non spiegata: la disambiguazione del testo spetta, infatti, al lettore.
Nel testo tradotto occorre fare il possibile perché sia il lettore, e non il traduttore, a svolgere tale compito.
Johann Wolfang Goethe
Goethe descrive tre metodi traduttivi attraverso i quali si può comprendere l’intero patrimonio della letteratura tradotta.
Il primo “periodo” è quello che ci fa conoscere un paese nostro in termini nostri. Esempio emblematico di ciò è la traduzione della Bibbia da parte di Lutero. Questo tipo di approccio ha scopi didascalici e documentaristici a favore del popolo tedesco.
 Il secondo periodo è quello in cui il traduttore si trasporta nella situazione estranea e la rappresenta come una sua propria.
Questa epoca si chiama parodistica ed è riferita, per esempio, ai francesi e alle loro “belle infedeli” che adattano le parole straniere alla loro pronuncia, allo stesso modo in cui adattano sentimenti e pensieri.
La terza epoca della traduzione è la più alta tra le tre: scopo di questo periodo è di arrivare a una traduzione perfetta (integrale), ossia un’identità perfetta con l’originale. Il metatesto deve esistere non al posto del prototesto, ma in sua sostituzione. Una traduzione che cerca di identificarsi con l’originale facilita la comprensione dell’originale da parte del lettore.
 Queste tre epoche descritte da Goethe si ripetono e coesistono; non sono epoche storiche piuttosto correnti culturali.
Giacomo Leopardi
 Nello Zibaldone Leopardi annota molte riflessioni interessanti sui temi della traduzione. Il poeta è ottimista quando afferma che in traduzione è possibile ricreare lo stesso effetto dell’originale.
La sua prima osservazione riguarda il concetto di “marcatezza”: “dove c’è marcatezza negli enunciati del prototesto, si devono riprodurre nel metatesto enunciati altrettanto marcati”.
Per il poeta, se si traduce un determinato concetto con una parola (anche giusta) dell’altra lingua ma si usa un sinonimo che nella traduzione non produce l’effetto dell’originale, vuol dire che siamo di fronte a una traduzione sbagliata.
Leopardi parla anche di “traducibilità della cultura”: la traduzione non è solo un’operazione linguistica, ma un processo culturale. E quando nella cultura ricevente mancano determinate categorie culturali ci sono problemi di traducibilità. Ogni atto interpretativo è perciò traduzione dell’estraneo nella lingua di casa, l’unica nella quale siamo capaci di pensare e provare sentimenti.
Poi in alcune culture certe concetti mancano ed è questo il momento in cui incorrono i problemi di traducibilità quando si constata la mancanza di segni per esprimerli. Il linguaggio mentale è più ricco di quello verbale, perciò non esistono corrispondenze precise.
Nessuna lingua ha tanti modi e parole per esprimere tutti i particolari del pensiero: così se si possiedono più lingue ciò che non si esprime nell’una, lo si dice nell’altra: “L’uso delle lingue straniere contribuisce alla potenzialità espressiva dell’individuo”. 
Un’opera non si apprezzerà mai, se non in relazione alla lingua familiare. Così, non trovando tra una lingua e l’altra frasi corrispondenti, stentiamo a capire un determinato concetto dell’originale. In quel caso bisogna cercare di far intervenire un altro mezzo, anche un’altra lingua conosciuta dal lettore.
Si traducono, quindi, i segni della prima lingua in segni della seconda e tutto si riporta nell’idioma che è a noi più familiare. A volte, però, non basta e si deve ricorrere alla parafrasi.
Ma è bene ricordare che quando si parla di un concetto che manca in una lingua o nell’altra ciò non deve considerarsi in termini di superiorità o inferiorità di un popolo rispetto all’altro. La traduzione ha un ruolo importante nel colmare queste mancanze ed arricchire le culture meno evolute.
In ultimo Leopardi, prende un ulteriore spunto per considerare la figura del traduttore. Egli afferma, infatti, che quest’ultimo non può essere spontaneo perché tutte le decisioni che l’autore dell’originale ha preso in modo naturale, il traduttore deve sceglierle in modo razionale.
Arthur Schopenhauer
Nel 1851 introduce alcune problematiche traduttive affrontando la questione dell’equivalenza. Egli afferma che non per ogni parola se ne trova un’altra precisamente equivalente in un’altra lingua. Spesso però i concetti si assomigliano e questo ci trae nell’inganno di pensare che coincidano.
L’apprendimento delle lingue non è solo puro apprendimento delle parole ma di una nuova concettualizzazione del mondo e così ci aiuta ad andare oltre alla limitatezza nazionale.
 Schopenhauer per spiegare più chiaramente la sua teoria disegna dei cerchi dei quali ognuno rappresenta un campo semantico diverso: questi si sovrappongono, ma non sono concentrici.
Il fatto che non coincidano precisamente indica quella sfumatura che manca da una lingua all’altra.
Da ciò si evince il carattere “deficiente” di tutte le traduzioni.