DALLA BIBBIA ALL'UMANESIMO

La Bibbia
Il caso della Bibbia è un caso a sé nella storia della traduzione perché non espone  problemi traduttivi, ma, nel suo primo libro la Genesi, narra i precedenti storici di questa pratica letteraria, in altre parole, la sua origine.
Più precisamente ci riferiamo qui all’episodio della Torre di Babele in cui l’uomo intende sfidare Dio per raggiungere la sua Onnipotenza e vuole costruire una torre alta fino al cielo per raggiungerlo.
Dio finì, così, per punirli facendoli parlare in diverse lingue per rendere loro impossibile comunicare e per far si che si rendessero conto della loro limitatezza rispetto alla sua grandezza divina.
Così, successivamente, i vari teorici non solo utilizzarono l’espressione “Torre di Babele” per riferirsi alla traduzione, ma i traduttori stessi divengono, in tal senso, mediatori tra l’impotenza umana e l’Onnipotenza divina.
Aristotele
In Peri poietikes[1], Aristotele analizza diversi tipi di nomi differenziandoli tra parole “comuni” o “peregrine”. 
La “parola peregrina” è una parola di un’altra lingua usata nella propria, un “barbarismo”. Questa definizione non è utilizzata, però,  in senso negativo perché per Aristotele l’elemento comune produrrà sì la chiarezza, ma sono proprio gli elementi esotici[2] ad aiutare il testo a essere più originale, mai mediocre.
L’autore qui è invitato a fare buon uso di entrambi questi elementi, a seconda della dominante del testo e del suo lettore modello.
Nella Metafisica, Aristotele fa un accenno alle parole polisemiche. Esse non sono considerate un artificio poetico, ma un’espressione di ambiguità e fonte di equivoci. Il loro significato deve essere definito con precisione perché ogni parola deve essere compresa a indicare una sola cosa. Se, invece, dovesse avere più di un significato dobbiamo mettere in chiaro a quale di questi la parola viene applicata nel caso specifico. 
Cicerone
La cultura greca considerava “barbari” tutti i popoli non greci, sottolineando l’alto livello di civiltà raggiunto dalla loro società e dimostrandosi, quindi, poco interessata ad accogliere contributi da altre culture che non fossero la loro. Successivamente la cultura romana venne considerata un satellite di quella greca anche nel modello di pensiero e di scrittura.
In De optimo genere oratorum[3], Cicerone si pronuncia in modo piuttosto preciso sulla traduzione. Qui afferma di non aver tradotto da interprete, ma da oratore, mantenendo le stesse frasi e la loro forma senza, però, necessariamente tradurre parola per parola. Non è necessario, infatti, ridare al lettore lo stesso numero di parole dell’originale, ma dare il senso dell’originale.
Per Cicerone bisogna principalmente tener conto della consuetudo ovvero del canone prevalente nella cultura ricevente e concentrasi sulla leggibilità del testo in vista di una possibile esecuzione orale.
Già a questi anni risale il superamento della concezione di corrispondenza semantica tra le singole parole dell’originale con quelle del testo secondario. Viene così valorizzato il concetto di “testo” come unità minima di senso.
Quintiliano
Un ruolo essenziale nella storia della traduzione è svolto dal ragionamento che è necessario fare per poter interpretare un testo e per poterlo, quindi, tradurre. Questo ragionamento è utile sia che si tratti di una traduzione intesa in senso stretto (decodifica e riscrittura in un nuovo codice naturale), sia che si tratti di una semplice lettura e la traduzione consista nella decodifica del prototesto con l’unico scopo di apprendere individualmente il messaggio riportato.
Quintiliano pubblica Institutio oratoria dove si occupa del grado di affidabilità dei segni. I segni possono essere divisi in signa necessaria e signa non necessaria.
I primi sono quelli che ci conducono ad una determinata conclusione. Gli altri non portano inevitabilmente a un’unica soluzione possibile, ma conducono a varie ipotesi.
Anche se queste considerazioni non riguardano lo specifico della traduzione, questa osservazione è di grande utilità per la nascita della futura scienza.
Il fatto che esistano segni “non necessari” ci porta i riflettere sull’ambiguità dei singoli segni e sul ruolo del traduttore in relazione a tali ambiguità.
Egli può propendere sia per una sua conservazione che per una sua disambiguazione. A volte, però, la comune tendenza dei traduttori a esplicitare il contenuto implicito dell’originale fa si che alcuni segni “non necessari” diventino “necessari”. E per Quintiliano questa attitudine non è detto che sia consapevole e avviene istintivamente perché il traduttore vuole andare in soccorso alle scarse risorse interpretative del lettore modello.
Gerolamo
Nel 390 San Gerolamo traduce dal greco una parte della Bibbia e viene accusato di aver fatto una cattiva traduzione. Dopo questa accusa argomenta in modo interessante a sua discolpa nel suo Liber de optimo genere interpretandi[4]. Egli fa una sorta di quella che oggi chiameremmo “critica della traduzione” e parla delle possibili alterazioni del testo originale dividendole in tre gruppi: modifiche, aggiunte, omissioni.
Per far fronte alle accuse, Gerolamo spiega di non aver tradotto le parole, ma il senso complessivo, attaccando la traduzione letterale e suggerendo che in greco verrebbe chiamata kakozelìa ossia “brutta imitazione”.
Lo studioso è convinto che il pensiero altrui vada riportato “intatto” senza essere inquinato da modifiche (anche perché nel suo caso specifico “il pensiero altrui” è la Parola Divina).
Secondo questo approccio, la presenza di elementi culturali estranei, provenienti da un’altra cultura deve sempre essere messa in evidenza e gli elementi altrui non devono essere omogeneizzati ma conservano la propria identità.
Dante Alighieri
La posizione di Dante è decisamente all’avanguardia soprattutto per quel che riguarda l’alternanza di codici linguistici (code switching) nella Divina Commedia. In questa opera convivono, in effetti, passi in latino, in provenzale oltre che in volgare fiorentino.
Ma Dante è un innovatore anche nel porsi il problema di trovare e stabilire un lettore modello delle sua opere. Testi come De vulgari eloquentia o De monarchia sono in latino, si rivolgono a un pubblico colto e sono stati redatti tenendo conto delle convenzioni stilistico-linguistiche della cultura accademica del tempo. Diverso è per il Convivio o per la stessa Commedia che avevano l’obiettivo primario di educare il popolo.
In De vulgari eloquentia, Dante sottolinea la “naturalità” del volgare rispetto al carattere “artificiale” del’altro. “La lingua volgare”, afferma, “è quella che si impara senza regole tra le mura domestiche mentre il latino è quella lingua che i Romani definirono “grammatica”. La grammatica è un sistema astratto di regole che i dotti introducono per fissare una lingua e renderla comunicabile in tempi e luoghi diversi”.
Dante considera, così, la lingua come una convenzione che le società stabiliscono per comprendersi. Per queste ragioni la prima è definita locutio naturalis e la seconda locutio artificialis: più nobile la prima perché appresa in modo naturale, superiore la seconda per la sua immutabilità.
 Il latino è una lingua non più soggetta a evoluzione. Nel suo trattato Dante, però, non accenna al fatto che il volgare sia un prodotto del latino, ma che siano stati i dotti ad inventare artificialmente il latino per sopperire alla manchevolezza del volgare in determinate espressioni linguistiche. E il suo proposito è di trasformare il volgare “naturale” in una lingua stabile ed illustre destinata a fungere da mezzo espressivo per la poesia.
John Trevisa
Nell’Inghilterra del Trecento gli studiosi iniziano a porsi il problema di volgarizzare i testi latini per renderli più comprensibili al popolo.
John Trevisa traduce varie opere dal latino e, nel Dialogue between a Lord and a Clerk upon Ttranslation, del 1387, esprime il suo punto di vista sulla traduzione. Trevisa spiega come abbia avuto l’esigenza di lasciare immutati nomi propri e toponimi mentre in molti casi si sia visto costretto a cambiare l’ordine della parole o trasformare frasi attive in passiva e viceversa.
L’intento di Trevisa è divulgativo e questo ci fa supporre che il suo lettore modello non sia molto istruito, motivo per il quale la sua strategia traduttiva mira alla comprensibilità, spiegando un termine laddove il suo significato fosse complicato da cogliere.
Trevisa parla anche di critica della traduzione. Egli difende fortemente l’idea che una traduzione sia sempre migliorabile, abbandonando la possibilità che esista la traduzione perfetta alla quale debbano attenersi tutte le altre.
Nel 1420 il grande umanista di Arezzo scrive un piccolo trattato incompiuto sulle leggi di una buona traduzione dal greco al latino.
Egli si sente in dovere di dettare delle regole da seguire universalmente, affermando che la traduzione più difficile è quella di un testo ricco di “figure retoriche” che non vanno tradotte alla lettera ma nel loro significato più ampio.
Un esempio pratico è rappresentato dalla frase: “Desiderati milites centum” che letteralmente significa “mancano cento soldati” ma il suo vero senso è “cento soldati sono morti in battaglia”.
Bisogna rispettare i singoli elementi del discorso, le figure retoriche e lo stile.  Bruni è, inoltre, nemico dei vocaboli stranieri e in particolar modo di quelli greci: “non c’è nulla in greco che non possa essere tradotto con parole latine”. Evidentemente sente il pericolo della diffusione eccessiva di parole greche.
Solo secoli più tardi, nel Romanticismo, gli studiosi inizieranno a rivalutare l’influenza straniera sulla propria lingua e cultura. 


[1] Della Poetica, 350 a.C.
[2] Esotizzazione: introdurre o conservare elementi culturali appartenenti a una cultura non locale (rispetto al metatesto). Gli elementi esotici sono elementi tipici per la cultura emittente, ma atipici per la cultura ricevente. Un caso estremo di questo processo è la naturalizzazione. 
[3] Il modo ottimale di organizzare un discorso.
[4] Libro sul modo ottimale di tradurre.