DALLA RIFORMA AL SETTECENTO

Martin Lutero
Martin Lutero traduce la Bibbia e i Vangeli in volgare tedesco e nel 1530 scrive Senbrief Vom Dolmetschen[1], che costituisce un documento di discreta importanza anche per la storia della traduzione.
In questo testo Lutero insiste sul fatto che, per tradurre, bisogna capire il senso del testo, la sua vera anima. Non bisogna solo fossilizzarsi sulle questioni puramente linguistiche. Si deve trasferire dalla lingua di partenza a quella di arrivo non la lettera, ma il significato di ogni passaggio.
“La sola grammatica non basta per tradurre la Bibbia”, non serve la sola conoscenza della sintassi greca ed ebraica per tradurre la Scrittura, ma il traduttore deve conoscere la storia del popolo che ha dato origine al libro.
Infine, pensò poi di fare un “dizionario biblico” che riunisse tutti gli strumenti necessari all’interpretazione della parola di Dio.
La traduzione della Bibbia è un testo fondamentale anche per la formazione di una lingua popolare tedesca scritta, per l’identità stessa della cultura tedesca.
Il popolo teutonico fino ad allora non era naturalmente in grado di comprendere il testo sacro, considerando il latino un qualcosa di astratto e inaccessibile. Ed è per questo che Lutero ha creato un metatesto nella lingua parlata dal popolo tedesco.                
 Egli ha puntato a far comprendere il testo a tutte le classi sociali e la sua scelta è stata duramente criticata dai sostenitori della sacralità, che accorsero in difesa del significato originario delle Sacre Scritture, ritenendo che il religioso avesse compromesso il vero messaggio divino.
Questo fu uno dei primi passi che condussero all’inesorabile rottura del mondo cristiano e che portarono alla Riforma Luterana.
Juan Luis Vives
L’ultimo capitolo dell’opera De ratione dicendi di Juan Luis Vives è dedicato alla traduzione: l’autore qui esprime la necessità di stabilire un lettore modello e di scegliere determinate strategie traduttive.
Vives distingue tre tipi di traduzioni: quelle in cui solus spectatur sensus (l’attenzione è sul senso), quelle in cui sola phrasis et dictio (l’attenzione alla frase e all’esposizione) e quelle in cui et res et verba ponderantur (parole e cose vengono attentamente ponderate).
Il primo tipo di traduzione è libera e per raggiungere l’obiettivo si può arrivare ad omettere ciò che non serve in favore della comprensione.
Mentre le traduzioni del terzo tipo, quando è possibile, conservano anche le figure retoriche nel passaggio da una lingua all’altra.
Dolet fu traduttore, editore e autore e con il suo trattato La maniere de bien traduire d’une langua en autre[2] espresse le proprie idee su un’attività che in quegli anni era in pieno sviluppo visto che in molti istituti pubblici era stato posto l’obbligo della lingua francese.
Il traduttore per Dolet deve soddisfare cinque requisiti fondamentali: il primo è la comprensione del testo e dell’argomento trattato dall’autore che si va a tradurre; il secondo è la conoscenza perfetta delle due lingue in questione per evitare di non fare torti sia all’autore dell’originale ma anche di non tradire il lettore; il terzo principio è quello dell’autonomia. Per essere veramente fedeli al testo di partenza non bisogna tradurre parola per parola ma solo l’intenzione dell’autore, ciò che l’autore vuole comunicare (il traduttore non deve asservirsi al significato letterale); la quarta regola riguarda soprattutto le parole: il traduttore non deve usare i calchi dal latino, ma una buona lingua di uso comune; la quinta regola riguarda il suono: anche l’orecchio vuole la sua parte e il traduttore deve stare attento alla disposizione di ogni singola parola e deve utilizzare uno stile bello, elegante e soprattutto uniforme.
Pierre-Daniel Huet
Nel 1683 il francese Huet pubblica un trattato sulla traduzione intitolato De interpretazione. Un aspetto molto interessante di questo documento è il fatto che egli si schieri contro le belles infidèles, traduzioni che andavano molti in voga in Francia nel Seicento e consistevano nell’abbellire i prototesti, adattandoli alla cultura francese, come a farli passare per originali.
Egli riteneva, infatti, che questi testi alla fine del processo perdessero la loro identità di traduzione.
L’eccessivo narcisismo dei traduttori rischia di trasformare le traduzioni in appropriazioni personali, in cui il traduttore si comporta da critico verso il testo originale e si prende il diritto di fare delle modifiche o delle omissioni.
Al contrario si dovrebbe, invece, mantenere anche la posizione delle singole parole laddove fosse possibile. Il lavoro del traduttore dovrebbe essere leggero: bisogna lasciar trasparire anche gli aspetti meno belli dell’originale e se il testo di partenza presenta dei difetti in chiarezza ed eleganza, tali devono restare anche nella traduzione.
Il compito della disambiguazione spetta sempre al lettore, mai al traduttore. E sulla base di queste considerazioni, successivamente è stata commissionata la ritraduzione dei classici precedentemente tradotti ed abbelliti, privando il lettore di assaporare il gusto dell’originale. 
Il grande poeta inglese si cimentò per passione nella traduzione di classici latini e non e le prefazioni dei suoi scritti costituiscono una sorta di piccolo trattato sulla traduzione.
Egli fa una distinzione fra tre diversi tipi di trasposizione testuale: la metafrasi (versione interlineare), la parafrasi (dominanza del contenuto) e l’imitazione (opera che prende spunto da un’opera precedente, prendendola come modello).
Le sue citazioni riguardo la traduzione interlinguistica e sono molto moderne: “così come la natura deve essere realistica sulla tela di un pittore, il traduttore non deve abbellire il metatesto”. Questo significa che ci deve essere la maggiore somiglianza possibile con l’originale.
Dryden identifica nell’atto traduttivo due processi fondamentali: quello primario e quello secondario.
Il primo è la semplice analisi del prototesto che genera un cumulo di elementi sparsi senza un filo logico, il secondo è, invece, la sintesi di questi elementi che seguendo una trama, stabilita dal traduttore, formano il metatesto.  Successivamente, nel 1700, traduce Chaucer dall’inglese antico a quello moderno. Questo lavoro da una parte gli costò l’ira dei puristi della lingua inglese, mentre dall’altra il riconoscimento dei lettori inglesi non tutti in grado di affrontare l’originale.
Per difendersi dalle accuse enuncia uno dei principi fondamentali della teoria della traduzione: il principio del residuo comunicativo.
 Dryden sembra, infatti, già intuire che esiste la possibilità di compensare un eventuale residuo testuale con una spiegazione affiancata al testo.



[1] Lettera del tradurre.
[2] Il modo di ben tradurre da una lingua all’altra.