LA NASCITA DELLA TRADUZIONE AUTOMATICA

La nascita della traduzione automatica
L’aumento del numero delle traduzioni dei testi scientifici ha portato alla nascita di un nuovo quesito: l’automazione del processo traduttivo dei testi tecnici e scientifici.
L’informazione rilevante di ogni testo da tradurre è sottoposta a numerose trasformazioni. Tali trasformazioni hanno l’obiettivo di sostituire i segni che portano l’informazione mantenendo l’informazione invariata. Da qui l’idea di automatizzare il processo traduttivo.
Così nel 1946 il professor William Weaver ha proposto l’idea di usare i computer per tradurre da un linguaggio all’altro e quindi meccanizzare il processo traduttivo, pubblicando il suo memorandum dal titolo Translation nel quale espone il suo punto di vista sui mezzi di realizzazione della traduzione automatica. Le prime ricerche pratiche in questa direzione sono ad opera dell’ingegnere sovietico Troânskij.
L’idea è stata proposta per dimostrare le possibilità della macchina e ciò ha provocato un intenso scambio di opinioni.
Nel 1952 è stata organizzata negli Stati Uniti la prima conferenza dedicata ai problemi della traduzione automatica ed è stato inaugurato il primo gruppo di ricerca scientifica. Fin da subito è apparso evidente che le problematiche da affrontare non sarebbero state di natura tecnica ma linguistiche.
Da qui derivano tre considerazioni sulla traduzione automatica:
1.      Una traduzione automatica di buona qualità è irrealizzabile perché l’attività linguistica dell’uomo non può essere tradotta in formule;
2.      È possibile realizzare una traduzione automatica non autonoma solo di testi tecnico-scientifici perché ci sono problemi che la macchina non può risolvere come l’identificazione delle espressioni linguistiche, la polisemia, l’omonimia, la sinonimia e le espressioni idiomatiche;
3.      È possibile realizzare una traduzione automatica autonoma e di alta qualità di testi tecnici e scientifici e in futuro anche di testi artistici.
I primi passi verso la realizzazione di una traduzione automatica si fondavano sull’idea secondo la quale la macchina deve essere soltanto un aiuto per il traduttore, svolgendo il grosso del lavoro, ossia dare il significato lessicale di tutte le parole del testo. Il traduttore così deve solo redigere la versione finale della traduzione. In relazione a questo discorso, il gruppo di ricerca di Harvard è stato il primo ad elaborare dizionari automatici per una traduzione automatica dal russo all’inglese.
Nella tappa successiva della ricerca si arrivò ad un’altra conclusione: la macchina non deve essere d’aiuto al traduttore, ma allo specialista che vuole accedere direttamente all’originale.
Supponendo che lo specialista abbia almeno qualche nozione della lingua straniera di cui si parla, e conosca bene la terminologia relativa alla disciplina specialistica di cui si occupa, si pensava che la traduzione automatica dovesse dargli solo un’informazione limitata del prototesto, informazione che gli avrebbe permesso di farsi un’idea generale del contenuto del testo e di decidere se farlo tradurre da un professionista.
Successivamente un numero sempre maggiore di specialisti ha iniziato ad analizzare l’idea di una traduzione automatica autonoma. È la macchina stessa che deve tradurre, escludendo ogni intervento di tipo umano.
Le ricerche condussero alla prima realizzazione di una traduzione automatica autonoma e questo esperimento è conosciuto con il nome di “esperimento di Georgetown”. Il 7 gennaio del 1954 a New York, una macchina ha realizzato una traduzione autonoma dal russo all’inglese di una trentina di frasi scritte appositamente per questo esperimento: radici e desinenze delle parole russe erano state precedentemente inserite in un dizionario che attribuiva loro uno al massimo due traducenti inglesi.
Dopo l’esito positivo dei primi esperimenti, il volume del dizionario è aumentato fino a contenere seimila unità. Ma le previsioni troppo ottimistiche degli inizi sono state presto contrastate da una serie di riflessioni successive: teoricamente la traduzione automatica dei testi scientifici è possibile, ma la realizzazione di questo tipo di traduzione non è un’ipotesi considerabile per i testi narrativi.
Gli elementi dei linguaggi artificiali, infatti, si fondano sul principio della corrispondenza biunivoca: ne consegue che i loro elementi non possono essere polisemici, né omonimici né sinonimici. Ciò significa che hanno sempre un solo significato del tutto indipendente dal contesto.
Questi tratti specifici semplificano al massimo la decodifica del messaggio e quindi anche i processi di analisi e sintesi. La decodifica si riduce, così, alla semplice identificazione di ogni elemento e quindi coincide con la loro traduzione. La sostituzione di un elemento con l’altro è puramente meccanica.
Diverso è, invece, il caso dei linguaggi naturali che non si fondano sulla corrispondenza biunivoca e la maggior parte dei loro elementi sono polisemici e si distinguono per omonimia e sinonimia. La decodifica del messaggio presupporrà, di conseguenza, una scelta. In opposizione a meccanico, questo processo viene così definito creativo.
Il traduttore effettuerà, quindi, una serie di scelte creative al fine di conservare l’informazione invariante rispetto a un certo sistema di riferimento.
La comunicazione nella traduzione automatica
Grazie all’intuito, ogni soggetto bilingue è in grado di tradurre. La scienza della traduzione all’inizio non ha, dunque, dovuto occuparsi di come insegnare all’uomo a tradurre, ma solo di guidarlo per ottenere i risultati prefissati.
Partendo da questa considerazione stabiliamo che i fautori di un atto comunicativo possono essere sia esseri umani che macchine e, quindi, dalla nascita della traduzione automatica la teoria e la pratica si sono dovute unire per cercare di capire come obbligare la macchina a tradurre.
Dato che il funzionamento di una macchina dipende da codici e programmi elaborati dall’uomo, la macchina è in grado di identificare i segni e quindi di essere un partecipante attivo nel processo della comunicazione. Per “segno” si intende un oggetto materiale che viene usato nel processo comunicativo nella lingua accettata per trasmettere informazioni.
L’atto di trasmettere un’informazione viene chiamato, invece,  comunicazione.
Nel nostro caso in particolare è la lingua il mezzo mediante il quale gli esseri umani comunicano i propri pensieri e le proprie emozioni. La comunicazione avviene, quindi, mediante i linguaggi naturali, ma ne esistono anche molti altri come il linguaggio della natura, delle macchine, degli animali…
Per “linguaggio” o “codice” si intende così un qualsiasi sistema di segni ben definito utile per l’atto comunicativo. Ma si può parlare di comunicazione anche tra uomo e macchina? Le risposta dipende dal punto di partenza della nostra analisi considerando la lingua e i segni. Se consideriamo lingua solo i linguaggi naturali (linguaggi dati da un numero finito di elementi costruttivi; in un testo scritto i grafemi formano i morfemi, i morfemi le parole e le parole formano frasi portatrici di informazione) e riteniamo che i segni possano funzionare solo nella società umana, ne deduciamo che la comunicazione è possibile solo tra uomini.
Al contrario, se accettiamo che ogni codice è un linguaggio e che i segni possono funzionare non solo tra gli esseri umani, si può parlare di comunicazione in tutti i casi.
Fatte queste premesse possiamo fornire una definizione più precisa del concetto di comunicazione.
Per comunicazione si intende, infatti, l’insieme dei processi che generano un messaggio (sottoforma di qualsiasi linguaggio) da parte di un emittente (uomo o macchina), la sua trasmissione e la sua comprensione da parte di un ricevente (uomo o macchina).
Nel processo comunicativo, l’emittente genera un messaggio che porta una certa informazione e lo deve trasmettere a un ricevente che lo percepisce e ne trae la stessa informazione.
Per trasmettere e ricevere la stessa informazione, il mittente e il ricevente devono attribuire lo stesso significato ai segni del messaggio: il modo in cui l’emittente genera il messaggio deve corrispondere al modo in cui il ricevente lo comprende.     Nel corso di un atto comunicativo, l’uomo non decodifica segni linguistici isolati, ma una serie di segni organizzati in modo più complesso. Il traduttore qui funge da trasformatore e il suo ruolo deve conciliarsi con lo scopo primario della comunicazione stessa.
Si evince, quindi, che la macchina è in grado di identificare un segno e di comprenderlo perché il funzionamento di un qualsiasi calcolatore si fonda su un linguaggio artificiale creato partendo da un linguaggio naturale e su un programma elaborato dall’uomo.