IL NOVECENTO


Giovanni Pascoli
Nel 1903 Giovanni Pascoli tiene un discorso inaugurale all’Università di Pisa in cui tratta piuttosto in profondità il tema della traduzione.
 Lo scrittore afferma che ogni buona traduzione è “mutamento di veste”: resta l’anima del testo ma il corpo muta. La parola “travestimento” non è intesa qui in modo negativo (come la lingua italiana vorrebbe).
Dobbiamo dare allo scrittore antico una veste nuova, ma non dobbiamo travestirlo. Il traduttore, però, deve stare attento a far si che l’anima venga deformata il meno possibile dal nuovo corpo testuale.
E inoltre non bisogna adattare il testo ai canoni italiani, ma innovare l’italiano sulla base della traduzione.
La differenza sostanziale che Pascoli vuole sottolineare è tra interpretazione e traduzione.
C’è quell’opera che vuole rendere al meglio il pensiero e le intenzioni dell’autore e chi, invece, si accontenta di esprimere solo il significato letterale delle singole frasi. Il primo fa recepire il gusto dell’opera, al contrario dell’altro che ha l’obiettivo di far passare solo il messaggio.
Lo scrittore antico deve poter rivivere attraverso le parole del traduttore e trasmettere il suo pensiero nella nuova lingua. Il traduttore dovrà essere semplice, se il testo è semplice, pomposo se è pomposo e non deve omettere informazioni nel testo o imbruttire lo stesso, ma nemmeno correggerlo e imbellirlo.
Luigi Pirandello
Nel 1908 il celebre drammaturgo siciliano pubblica sulla rivista letteraria Nuova Antologia un articolo intitolato “Illustratori, attori e traduttori”.
Pirandello accomuna queste tre processi di trasformazione del prototesto, anticipando il concetto di “traduzione intersemiotica”.
Illustratori, attori e traduttori si trovano nella stessa situazione di fronte ad un opera d’arte, di qualsiasi genere essa sia. Hanno un’opera d’arte già espressa e creata da altri e ognuno di essi deve tradurla in un’altra forma d’arte.
Il primo in un’altra arte, il secondo in recitazione, il terzo in un’altra lingua. Pirandello parla anche di ritmo, di collocazione della parola e dell’inesistenza di equivalenti stilistici.
La creazione artistica prevede l’insieme di suono e senso e tale rapporto non si può ripetere nemmeno nella stessa lingua: nemmeno l’attore è in grado di recitare due volte lo stesso testo allo stesso modo, figuriamoci se lo si ottiene in traduzione.
Per spiegare questa dichiarazione, Pirandello prende ad esempio la parola tedesca liebe che si traduce con l’italiano amore, ma nel tradurre ci concentriamo solo sul significato della parola, trascurando il suono.
Per Pirandello, infatti, in italiano si perde quella eco che viene trasmetta dalla lingua tedesca.
Da ciò ne deriva un atteggiamento pessimistico nei confronti della traduzione e sulla possibilità del tradurre.
La recitazione di un dramma è dunque traduzione perché si tratta di un’attualizzazione di un testo in un altro sistema di segni con determinate caratteristiche vocali, ritmiche, di intonazione.
E già la lettura stessa è traduzione perché si trasmette il pensiero altrui ad un pubblico che lo può interpretare a seconda della lettura.
Paul Valéry
Nel 1944 il poeta Paul Valéry accetta di tradurre dal latino al francese le Bucoliche di Virgilio. Nella prefazione del suo lavoro, enuncia alcuni principi ai quali si è attenuto, principi che riguardano soprattutto la traduzione poetica, dove per poesia si intende un’arte che interessa non solo la mente ma anche l’orecchio.
La poesia non è altro che il discorso quotidiano modificato da un’emozione e, per questo, tradotto in “linguaggio degli dèi”.
A Valéry sembra, quindi, insensato tradurre senza tener conto del ritmo, anche se, a volte, lo stesso ritmo costringe l’autore a deviare troppo dall’originale.
Il poeta enuncia, pertanto,  una sorta di teoria delle dominanti ante litteram definendo per lui quali sono gli elementi da sacrificare per salvarne altri, perché infatti, una volta stabilita la dominante di un testo, è lecito infrangere le normali convenzioni del modello traduttivo.
 Il traduttore poetico, ad esempio, ha una dominante ben precisa. La poesia deve distinguersi dal linguaggio ordinario e quindi vanno salvati tutti quegli elementi che lo rendono armonico, che lo distinguono dal parlato comune.
Luciano Bianciardi
Luciano Bianciardi è stato uno scrittore e un traduttore famoso non per aver avuto un ruolo attivo nella teoria della traduzione, ma per il suo romanzo La vita agra del 1962, romanzo il cui protagonista è un traduttore.
Lo scrittore racconta nella sua opera in modo ironico gli aspetti pratici della vita e del lavoro del traduttore, dal numero di cartelle da tradurre per arrivare a fine mese ai diversi argomenti con i quali è costretto a cimentarsi.
Bianciardi lo definisce “un lavoro assai interessante” perché consente di apprendere tantissime cose sugli argomenti più disparati, seppur non vi sia il tempo necessario per assimilare tutto come si vorrebbe.
Lo stesso personaggio creato da Bianciardi afferma che per essere un buon traduttore bisogna sapere saltare da una lingua all’altra con molto agilità e dimestichezza e imparare a pensare direttamente nella lingua da cui si traduce: “Il traduttore è uno scrittore versatile e con una certa elasticità mentale”.
Kornej Čukovskij
Kornej Čukovskij dedica un intero libro al problema della traduzione: Vysokoe iskusstvo[1]. Il volume contiene numerosissimi esempi di traduzione da varie lingue verso il russo accompagnati dai giudizi dei più noti traduttori russi.
Lo studioso si pronuncia contro la traduzione parola per parola e contro i calchi, pensando che è solo un’illusione dei lettori più ingenui quella di credere che la traduzione parola per parola sia effettivamente quella più precisa.
Sono in molti a pensare, infatti, che una ogni parola abbia esattamente lo stesso significato in una lingua straniera, ma la riproduzione precisa di ogni singola parola non ci dà una rappresentazione fedele dell’originale.
E la conclusione è che quella che viene definita traduzione precisa (letterale), ossia la semplice copiatura di ogni parola, non può che essere la più infedele di tutte le traduzioni.
Octavio Paz
Il discorso di Octavio Paz sulla traduzione tratto dal libro Traduccion: literatura y literalidad del 1971  è ricco di spunti interessanti per quello che riguarda la teoria della traduzione.
La sua visione è quella di una traduzione in senso lato, vista come un semplice processo di comunicazione.
Per Paz, imparare a parlare vuol dire imparare a tradurre. Quando il bambino domanda alla madre il significato delle parole, ciò che le sta davvero chiedendo è di tradurre nel suo linguaggio un determinato termine a lui sconosciuto.
La traduzione all’interno di una stessa lingua, quindi, non è poi così diversa da quella interlinguistica ed è, quindi, una semplice una relazione tra mondo proprio e mondo altrui e tra un popolo e altri popoli; una cerniera tra il proprio e l’altrui e serve sia ad unire (comunicare) che a dividere: da un lato, infatti, abolisce le differenza tra una lingua e l’altra, dall’altro le rivela maggiormente.
Grazie alla traduzione ci rendiamo conto che chi ci sta vicino parla e comunica con i suoi “simili” in modo diverso da noi.
Italo Calvino
In uno dei suoi interventi intitolato “L’italiano, una lingua tra le altre”, Calvino affronta il tema della traduzione da un punto di vista linguistico e culturale.
Per Calvino l’italiano è una lingua duttile, elastica che ci permette di tradurre dalle altre lingue in modo piuttosto lineare, ma aggiunge che gli italiani si pongono troppo poco il problema di essere tradotti come in una sorta di “egocentrismo linguistico”.
Non ci si pone mai abbastanza il problema di essere comprensibili. E infatti per le altre culture l’italiano così ricco, è in realtà una lingua isolata, intraducibile.
Ciò che Calvino vuole esprimere è che chi scrive per comunicare dovrebbe tener conto del grado di traducibilità delle espressioni che usa.
Successivamente lo scrittore si sofferma sul tema della traduzione da traduttore in una nota sulla sua traduzione dei Fiori blu di Queneau: il testo era pieno di giochi di parole a ironia e Calvino individua in essi la dominante del testo.
Il problema era rendere al meglio possibile le singole trovate, ma farlo con leggerezza, senza che si sentisse lo sforzo, senza creare intoppi, perché in Queneau anche le cose più calcolate hanno l’aria di essere buttate lì sbadatamente. Insomma, bisognava arrivare alla disinvoltura d’un testo che sembrasse scritto direttamente in italiano, e non c’è niente che richieda tanta attenzione e tanto studio quanto rendere un effetto di spontaneità.
Calvino non vuole, però, dire che le traduzioni in generale debbano leggersi come se fossero un originale, ma che in quel caso particolare, trattandosi di un testo basato interamente sull’ironia, la sua traduzione non sarebbe potuta essere trasparente e, allo stesso tempo, essere ironica e divertente. Questo tipo di traduzione per Calvino dovrebbe chiamarsi “traduzione reinventiva”.
Primo Levi
Nel 1983 Primo Levi traduce Il Processo di Franz Kafka per la collana ideata e voluta dallo stesso Giulio Einaudi intitolata “Scrittori tradotti da scrittori”.
 In un’intervista successiva alla pubblicazione, Levi commenta alcune sue scelte traduttive, facendo alcune considerazioni in generale sulla traduzione.
Lo scrittore individua due poli opposti nel tradurre. A un estremo pone Vincenzo Monti, traduttore dell’Iliade, affermando che egli racconta le stesse cose scritte da Omero in un linguaggio moderno, modellando l’opera antica sul suo gusto contemporaneo. All’altro estremo pone la traduzione interlineare, quella scolastica, parola per parola che cerca di rendere al meglio il senso del testo.
Il primo caso porta il lettore a gustare l’opera in tutta la sua bellezza (anche se viene letta in traduzione), mentre il secondo lo lascia sotto la costante impressione di leggere un testo tradotto.
Levi spiega nello specifico che il suo metodo è stato quello di andare incontro alle esigenze di leggibilità e alle convenzioni della cultura letteraria italiana, e per questo ha abolito alcune ripetizioni contenute nel testo.
Kafka non esita di fronte alle ripetizioni. Levi ha cercato, invece, di evitarlo, ritenendo queste ripetizioni inopportune per le convenzioni italiane.
Può darsi anche che sia stata una decisione troppo personale e che le ripetizioni in italiano avrebbero avuto lo stesso effetto, ma lo scrittore aggiunge di aver preso questa posizione per pietà nei confronti del lettore (italiano), evitando di fargli leggere un testo che sapesse troppo di traduzione.
Francesca Sanvitale
La Sanvitale traduce Diavolo in corpo di Radiguet e tra le note del traduttore analizza l’impatto che questa professione ha avuto sulla sua persona e sulla sua carriera di scrittrice, abbattendo alcuni luoghi comuni.
La scrittrice considera il testo un corpo da smembrare, sezionare a poi ricostruire. Tutti gli elementi, le frasi e le singole parole devono essere divise e poi ricomposte in un ordine diverso da quello di partenza, mentre l’approccio di un traduttore alle prime armi è quello di razionalizzare tutto il processo, di rendere il tutto più logico.
Alla fine di tutto il processo quel corpo presenterà delle cicatrici, che non devono essere occultate: anche se non è bello sentirle e vederle, il lettore deve abituarsi a loro e su “un cadavere ricostruito” deve imparare anche a dare un giudizio estetico.
Il rapporto con il testo tradotto è un rapporto con l’altrui: il traduttore importa un prodotto altrui nel proprio, ma in qualità di testo “estraneo” ed è per queste ragioni che il lettore deve essere consapevole delle eventuali cicatrici.
La postfazione della Sanvitale si conclude con una nota amara sulla traduzione: l’ammissione di una perdita, di un residuo che sono caratteristica universale di ogni traduzione.
La traduzione è una sconfitta. È un duello a cui ci si costringe sapendo che perderemo.
Edoardo Sanguineti     
Edoardo Sanguineti a margine della sua versione di Satyricon di Petronio dichiara che la sua è stata una traduzione manipolatoria.
Egli afferma che l’Io del traduttore si impone al lettore con forza, con prepotenza, ma il lettore è avvisato.
La traduzione, per Sanguineti,  è un cavallo di Troia del quale il traduttore si serve per inserirsi in un territorio nemico dove, spacciandosi per l’autore vero, può agire indisturbato e senza prendersi quelle responsabilità che pesano sull’autore reale.
Il traduttore ci parla sotto una maschera e si esprime nascondendosi dietro il suo lavoro.
Milan Kundera
Nel 1993 lo scrittore ceco Kundera pubblica I testamenti traditi, un libro di critica che contiene un intero capitolo dedicato alla traduzione e qui sottolinea l’importanza per il traduttore di tradurre con precisione le metafore.
È importante che la similitudine resti similitudine e la metafora metafora, ossia che non venga aggiunto un “come” o un altro elemento che trasformi la metafora in paragone per renderla (intenzionalmente) più comprensibile.
 A tal proposito Kundera riporta alcuni esempi di modifiche interpretative introdotte dagli stessi traduttori.
Un altro punto interessante della sua riflessione è quello dedicato ai sinonimi. Il bisogno di utilizzare un’altra parola al posto di quella più ovvia, più semplice e neutra è un atteggiamento comune a tutti i traduttori.
Il bisogno di sinonimizzare è così radicato nelle abitudini dei traduttori che si opta subito per un sinonimo anche quelle volte in cui la traduzione non richiederebbe nessuna scelta ardita.
La paura del traduttore è di cadere nella banalità. Questa pratica, che potrebbe sembrare innocente, se applicata con frequenza porta a un’inevitabile deformazione del testo di partenza.
 Un altro passo importante riguarda l’importanza di preservare le ripetizioni lessicali volute dall’autore dell’originale. Se l’autore prende spunto da una parola per elaborare una lunga riflessione, la ripetizione di tale parola è necessaria non solo da un punto di vista linguistico e semantico, ma anche logico.
La polemica di Kundera si chiude invitando i singoli traduttori a considerare anche i capoversi dell’originale e a riprodurli in modo fedele e a tener conto del modo in cui ogni autore utilizza la punteggiatura.
Filosofi e Critici letterari
Benvenuto Terracini
Nel 1957 Benvenuto Terracini dedica alla traduzione un capitolo di Conflitti di lingue e di cultura nel quale paragona il singolo atto del parlare a un processo traduttivo.
Fare uso del linguaggio è già tradurre, ma anche ascoltare lo è perché capire colui che parla è trasferire il suo pensiero nel nostro.
Tradurre non è, dunque, riportare semplicemente il linguaggio altrui, ma trasportarlo da una forma culturale ad un’altra, poiché ogni lingua è il prodotto della cultura da cui nasce. La traduzione non è una riproduzione, ma una trasposizione da un ambiente culturale ad un altro.
Per questo lo studioso manifesta il suo accanimento contro la pratica diffusa nelle scuole di insegnare la traduzione come un atto di “equivalenze” o “corrispondenze” lessicali trascurando tutti gli aspetti sintattici e culturali, il tutto aggiunto a un cattivo uso delle grammatiche e dei vocabolari.
Willard Van Orman Quine
Nel saggio Meaning and translation, Quine si pone il problema della traduzione radicale intesa come traduzione verso una lingua nella quale mai nessun testo sia stato tradotto prima.
La prima differenza da tracciare è quella tra home language ossia la lingua che si parla a casa e la native language, la lingua parlata nella realtà in cui si è nati e le due spesso non coincidono.
Il soggetto, al primo contatto con la realtà esterna, deve tradurre le frasi per capire e farsi capire. Questa è l’esperienza che rende ogni parlante un traduttore. Egli si accorge che “fuori di casa” la traduzione valida in casa non vale più, perciò elabora strategie per far fronte a questa polisemia di espressioni linguistiche.
Detto ciò Quine amplia il concetto di “traduzione” estendendolo a qualsiasi atto di comprensione del mondo esterno.
Walter Benjamin
Il filosofo tedesco Walter Benjamin pubblica nel 1923 Il Compito del traduttore, un saggio sulla traduzione.
Il primo argomento affrontato è quello del lettore modello o lettore ideale a cui si rifarebbe non solo la strategia dell’autore, ma anche quella del traduttore.
 La lingua dell’autore è ingenua, primaria e può permettersi un’espressione pura mentre la lingua del traduttore è un’espressione di secondo grado.
Il compito del traduttore è specifico.
Ciò ci aiuta a comprendere il perché l’atto traduttivo debba essere più razionale e svolto con maggiore coscienza.
Per questo la traduzione parola per parola non può quasi mai riprodurre pienamente il senso che essa ha nell’originale.
Una traduzione porterà sempre con sé le tracce di un’operazione di secondo livello: è come se l’originale fosse un vaso e la traduzione la ricostruzione di un vaso ridotto in frantumi.
Anche se la traduzione è sì un vaso ricomposto, la visione innovativa di Benjamin sta nel fatto che le fessure che rimangono tra un pezzo e l’altro non vanno nascoste e il vaso non dovrà più avere nessuna utilità pratica.
L’intentio dell’originale e quella della traduzione non devono essere necessariamente gli stessi.
Il testo tradotto non deve avere la pretesa di essere letto come un’originale. La vera traduzione è trasparente, non copre l’originale, non gli fa ombra.
Karl Maurer
Karl Maurer nel 1976 delinea un’analisi storica della traduzione confrontata rispetto agli altri generi della letteratura, giungendo alla conclusione che la traduzione è un genere letterario a sé stante. Appartiene, però, alla famiglia dei generi letterari “secondari”, quelli che hanno un prototesto di riferimento come la parodia, la satira.
Per “secondario” si intende che non potrebbe esistere se non esistessero i testi primari. La prima caratteristica che ogni traduzione deve avere è che sia un testo vero e proprio e un elenco di commenti al prototesto, ma avere una sua coesione e coerenza. Il metatesto deve così poter entrare a far parte della cultura ricevente.
Jacques Derrida
Il francese Jacques Derrida è un esponente del decostruzionismo.
Nel suo libro Des tours de Babel del 1985 espone una sua visione complessiva sulla traduzione. Il traduttore per Derrida non deve sentirsi costretto dalla resa del prototesto. I suoi princìpi sono:
1.      La traduzione non ha come fine essenziale quello di comunicare;
2.      La traduzione non è né un’immagine né una copia;
3.      La traduzione non ha nessun obbligo di trasportare contenuti, ma di far rimarcare l’affinità tra due lingue.
Scopo di Derrida è quello di emancipare la traduzione dalla schiavitù dell’originale. La traduzione diviene, quindi, narcisismo, esibizionismo, ignoranza dell’originale e perseguimento egoistico del proprio flusso di idee.
Efim Ètkind
Lo studioso russo ha scritto un saggio intitolato Un’arte in crisi, in cui annuncia il principio della dominante in traduzione.
Considerato che non è possibile tradurre tutto all’interno di un testo, il traduttore deve compiere quella che si definisce “analisi traduttologica” del prototesto e attuare delle scelte sulla base della strategia che ha deciso di applicare a quel dato testo.
È evidente che se il traduttore decide di dare priorità a un determinato aspetto del testo, ne deve sacrificare altri per mettere in rilievo quest’ultimo.
Il principio fondamentale della traduzione è quello di saper scegliere nel modo migliore ciò che deve essere sacrificato per stabilire quello determinante. Ma anche le “sottodominanti” vanno salvaguardate per quanto possibile.
Definire la specificità di un testo significa descrivere i conflitti principali che lo caratterizzano tra i quali vi è quello dominante.
Una buona traduzione presuppone la riproduzione fedele di ognuno dei nuclei conflittuali del testo. I conflitti più noti sono tra: sintassi e metrica; metrica e ritmo; tra suono e senso ecc.
Ètkind conclude la sua analisi indicando sei versioni diverse di traduzione:
·         Traduzione informativa: non ha pretese estetiche ma esprime semplicemente il contenuto del testo;
·         Traduzione interpretativa: è una traduzione che mescola prosa e commento. Ha, quindi, una spiegazione incorporata e possiamo anche chiamarla traduzione esplicitante;
·         Traduzione allusiva: nelle prima righe allude a come potrebbe essere l’originale, ma nel corso della traduzione lascia che il lettore se lo immagini da solo;
·          Traduzione approssimativa: traduzione che rinuncia a priori a creare un testo e si accontenta di dare un’idea dell’originale;
·         Traduzione ri-creativa: ricrea la struttura originale al prezzo di “sacrifici, traduzioni ed aggiunte” ed esalta il ruolo del traduttore come autore;
·         Traduzione imitativa: è opera di quegli scrittori e poeti che non ricreano l’originale, ma di esprimere sé stessi.
Umberto Eco
Umberto Eco è il più noto studioso della semiotica italiana.
Quello che in realtà ci interessa in questo manuale sono le riflessioni sullo specifico della traduzione e per questo riportiamo che, per Eco, “riprodurre un testo è come giocare a scacchi con un avversario di cui si prevedono le mosse”.
Il traduttore anticipa il gusto del lettore e così le letture diventano le attualizzazioni possibili di ciò che lo stesso aveva previsto.
Il percorso fatto dall’autore per realizzare il testo è lo stesso che il lettore dovrà percorrere a ritroso per interpretarlo, realizzando quella che si definisce “retrotraduzione”.
L’autore in questo modo prevede quello che può essere il suo lettore modello e suppone che quest’ultimo sia in grado di affrontare il testo e di comprendere precisamente tutte le espressioni allo stesso modo in cui l’autore le ha scritte.
Ma non tutti i tipi di testo danno adito a tante interpretazioni e per questo Eco fa una distinzione tra testo aperto e testo chiuso.
In Lector in fabula tale distinzione prevede che il testo aperto sia quello più carico di connotatività e quindi più soggetto a interpretazioni multiple.
Un testo chiuso, invece, prevede un numero molto limitato di interpretazioni, non ha mire artistiche ma solo informative.
Può anche accadere, però, che testi troppo rigidi che pretendono un’interpretazione prestabilita (da parte del lettore), finiscano così per essere aperti a decodifiche sbagliate, quelle che lo stesso Eco definisce “aberranti”.
Il motivo per cui ci si focalizza prevalentemente sul testo letterario è che in esso si concentrano le problematiche presenti in vari tipi di testo: stratificazione di linguaggio, linguaggi settoriali, registri, punti di vista.
“Affrontarlo”, afferma Eco, “è come domare un’idra a molte teste”.
Nel 2001 Eco pubblica Expreriences in translation, una serie di conferenze sulla traduzione tenute all’Università di Toronto del 1998.
Nel primo saggio si occupa del concetto di “equivalenza” partendo dalle difficoltà di fronte ai molteplici significati connotativi di una parola o di una frase.
Questo è forse il problema-chiave della traduzione perché ci pone il problema di decidere se conservare o meno le ambiguità presenti nell’originale o operare quella che si definisce “disambiguazione”, processo che normalmente è riservato al lettore, ma di cui il traduttore si fa carico (in modo discutibile).
E in relazione all’equivalente, Eco aggiunge che il vocabolario non è lo strumento principale del traduttore: non si traduce sulla base di un dizionario, ma bisogna considerare l’intera storia di due letterature.
La traduzione non è legata solo alla competenza linguistica, ma a quella psicologica e narrativa. Ed è per questo che i tentativi di traduzione automatica, soprattutto se si tratta di testi generici, si sono rivelati dei fallimenti, nonostante i grandi investimenti nel campo. 


[1] L’arte alta.